Finito ieri sera Città di Vetro di Paul Auster, il primo della Trilogia di New York.
Finito sull'onda dello slancio dell'ultima falcata, quella del centometrista, non su quella della partecipazione. Perche' il libro ma ha fatto perdere, non mi ha dato punti di riferimento, non mi ha fatto capire.
E il desiderio di capire e' quello che piu' mi rimane anche ora, quando la lettura e' ancora fresca, troppo probabilmente.
Sapevo che era un "giallo finto", avevo letto commenti mirabolanti verso questo venturo astro della letteratura americana, Auster, ma non ero forse preparato e in questo momento non riesco a farmi dire che mi e' piaciuto.
Al di la' delle belle intuizioni iniziali, un po' surreali e affascinanti, il libro mi è parso perdersi e attorcigliarsi troppo intorno a se' stesso, alle proprie eleganti volute, ammiccare troppo ai significati messi ad arte dietro ad altri significati dietro ad altri significati.
La prima evoluzione, quella iniziale di Quinn/Work/Auster aveva solleticato molto la mia immaginazione ma non ho capito subito che il tema e' tutto li' e ritorna in continuazione nei dialoghi con Stillman, nelle dissertazioni su Don Chisciotte, nel binomio Auster/Quinn, nella voce narrante.
Tutto un gioco di specchi e di palle di vetro concentriche, e ovviamente il libro non ha un senso, non ha una fine, si spoglia del tutto di ogni parvenza di romanzo giallo e della stessa storia.
Forse l'unico difetto, in questo momento, e' che non ci sono vibrazioni residue a meno che non le vada a cercare. L'ambiguità, l'irresolutezza e lo smarrimento in cui l'autore (chiunque egli sia) ha voluto precipitarmi non mi lasciano a sguazzarci contento col desiderio di risalire la corrente.
Forse la lettura va fatta sedimentare un po', forse l'incompiutezza che mi ha spinto a marciare a lunghe falcate verso l'ultima pagina mi ha impedito di assaporarlo.
E comunque, non e' detto che mi debba poi piacere, eh.
giovedì 21 agosto 2008
Citta' di Vetro
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